Lei sapeva bene che, quando viene il momento di mettere la testa a posto o di fare ordine in una mente sconclusionata, le signore vanno dal parrucchiere: le tinte tolgono il grigio dall’anima, le mèches rischiarano i pensieri, un buon taglio rimette in forma anche uno spirito ammaccato. Anche una banale messimpiega ha il suo effetto benefico nel riordinare le idee. Un servizio di qualità, poi, con taglio, massaggio, colore e manicure vale più di qualsiasi psicanalista dal doppio cognome (ma non ne esiste neanche uno con un cognome normale, chessò Mente Catto ad esempio?). Certo che lui con ciocche e permanente proprio non ci stava... Il cappello sì.
Lei pensò ai cappelli di suo padre, alle scuse che accampava (ah, la sinusite!) per poterlo indossare anche d’estate, alle pile di cappelli ordinate per colore nei negozi dove lo accompagnava quando era bambina. Chissà dove saranno finiti i cappelli di suo padre… Vorrebbe accarezzarne uno di quelli di tweed, quelli un po’ rigidi, ma forse vorrebbe soltanto poter vedere suo padre, ascoltarlo ancora un po’, pranzare un giorno a casa sua.
Anche lui parlava di suo padre.
Lui avrebbe voluto un cappello più stretto, in fondo voleva semplicemente nascondersi e quelle falde troppo larghe davano un senso estetico eccessivo. Provò a piegarle verso l’alto tentando di ridurre l’impatto visivo, ma inutilmente visto che il problema delle dimensioni dipendeva dalla testa e non dalla fattura.
Aveva passato una vita a cercare di nascondere quei tratti somatici che non amava, esagerati, pensava, per dimensione e ruvidità. Anche se poi il problema di non piacersi è marginale se non si passa davanti ad uno specchio, per cui preferiva pensare a se stesso come immagine del padre, cercandone le sembianze tra rughe e tratti somatici, là dove le somiglianze erano più cariche di nostalgia che di genetica.
Lei lo vezzeggiava nel guardare con ironia e interesse quel nuovo look, ma lui sapeva bene che i pensieri che le passavano per la testa non erano esattamente coerenti con le parole. Tuttavia ne apprezzava l’impegno e le leggeva negli occhi pensieri lontani.
Chissà se quei pensieri incontrollati e selvaggi si erano incontrati per qualche casuale motivo, là dove dove la complicità non è più un gioco ma una semplice intesa.
Magari pensando al padre, ai padri…
Lei pensò ai cappelli di suo padre, alle scuse che accampava (ah, la sinusite!) per poterlo indossare anche d’estate, alle pile di cappelli ordinate per colore nei negozi dove lo accompagnava quando era bambina. Chissà dove saranno finiti i cappelli di suo padre… Vorrebbe accarezzarne uno di quelli di tweed, quelli un po’ rigidi, ma forse vorrebbe soltanto poter vedere suo padre, ascoltarlo ancora un po’, pranzare un giorno a casa sua.
Anche lui parlava di suo padre.
Lui avrebbe voluto un cappello più stretto, in fondo voleva semplicemente nascondersi e quelle falde troppo larghe davano un senso estetico eccessivo. Provò a piegarle verso l’alto tentando di ridurre l’impatto visivo, ma inutilmente visto che il problema delle dimensioni dipendeva dalla testa e non dalla fattura.
Aveva passato una vita a cercare di nascondere quei tratti somatici che non amava, esagerati, pensava, per dimensione e ruvidità. Anche se poi il problema di non piacersi è marginale se non si passa davanti ad uno specchio, per cui preferiva pensare a se stesso come immagine del padre, cercandone le sembianze tra rughe e tratti somatici, là dove le somiglianze erano più cariche di nostalgia che di genetica.
Lei lo vezzeggiava nel guardare con ironia e interesse quel nuovo look, ma lui sapeva bene che i pensieri che le passavano per la testa non erano esattamente coerenti con le parole. Tuttavia ne apprezzava l’impegno e le leggeva negli occhi pensieri lontani.
Chissà se quei pensieri incontrollati e selvaggi si erano incontrati per qualche casuale motivo, là dove dove la complicità non è più un gioco ma una semplice intesa.
Magari pensando al padre, ai padri…
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