Un altro ha stabilito la sua startup in Olanda, l’amica lavora in una banca d’affari a Londra, il cugino è a Berlino in un’azienda che distribuisce prodotti ordinati online. La più secchiona lavora a Bruxelles nei progetti di cooperazione internazionale, la più piccola frequenta un semestre di scuola in Nuova Zelanda e il più avventuroso fa l’ingegnere nei mari del Nord.
Noi genitori, nel vederli andare verso l’aeroporto, siamo un po’ tristi, ma orgogliosi di loro. Ogni giorno restiamo in contatto online, facciamo le videochiamate per vedere dove vivono e possiamo permetterci di volare ogni tanto a trovarli.
Dopotutto, li abbiamo cresciuti in case piene di libri e di stimoli, li abbiamo mandati nelle scuole migliori, li abbiamo spediti all’estero in vacanza-studio. Li abbiamo fatti viaggiare e praticare sport per imparare l’arte di stare con gli altri facendo gioco di squadra. Li abbiamo curati e consigliati, spesso noi stessi prima di loro abbiamo fatto passi per aprirci al mondo.
E gli altri ragazzi? Che ne è di quelli che non hanno avuto la fortuna di crescere in famiglie agiate e colte come le nostre? Oppure di quelli che non hanno trovato dentro di sé la forza di affrontare il mare aperto?
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